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L’Aquila. 10 anni e 30 alberi

La città è un cantiere diffuso e gli esoscheletri di legno e ferro riempiono lo sguardo: impalcature, puntelli, reti e pannellature imbragano edifici, occludono vicoli, creano ombre dove prima filtrava il sole. La ricostruzione è diventata il paesaggio dominante de L’Aquila, sulle linee di orizzonte le innumerevoli gru si stagliano contro i monti dell’Appennino centrale che circondano la conca aquilana. A dieci anni dal sisma che l’ha demolita, quel 6 aprile 2009, la città procede nella sua lenta ricostruzione, attualmente compiuta al 50%.

Serve attraversare Amatrice, Accumoli e gli altri paesi a una cinquantina di chilometri a nord, per comprende come la ricostruzione fisica segni il primo passo verso l’uscita da un incubo, verso un’idea di futuro. Questi centri, che hanno pagato un tributo pesantissimo al terremoto del 2016, sono ancora sospesi nel limbo delle demolizioni, dello sgombero delle macerie, dei presidi dell’esercito che vietano transiti e foto. Dopo tre anni, la partenza dei cantieri appare ancora un’utopia e il time lapse di Amatrice spicca per contrasto con l’attività ricostruttiva del capoluogo abruzzese.

L’Aquila sembra insomma avviata alla ripresa e dal di fuori ci si potrebbe fermare a questo, ma entrando nella città si abbandonano le considerazioni e si attivano i sensi. La prima percezione è quella di una quotidianità che convive con il rumore, la polvere, il viavai di mezzi da cantiere su viabilità modificate. Un graffito – “L’Aquila 2019. Capitale europea del frastuono” – fa capire quanto il disagio possa persistere anche per i fortunati che abitano nella città storica. Gli stessi edifici ricostruiti ripropongono la propria filologia, ma non il proprio vissuto. Splendono di uno splendore troppo nuovo, perdendo la riconoscibilità della memoria che il tempo accumula sulle facciate. Il “com’era-dov’era”, che pure è rassicurante nel sentire comune, ha le sembianze dell’intervento di chirurgia estetica, bello e inespressivo.

Lo stridore più grande è però quello dello spopolamento, della mancanza di partecipazione umana. Se la ricostruzione fisica de L’Aquila sta andando avanti, lo stesso non si può dire della riappropriazione degli spazi urbani da parte della popolazione, ancora largamente sradicata dai luoghi storici e alloggiata in 19 insediamenti satellite, distanti dalla città. Dal progetto C.A.S.E. di Paganica, all’insediamento M.A.P. di San Gregorio, il senso di pesantezza di un’emergenza mai finita è forte.

Siamo portati a pensare alla ricostruzione fisica come l’obiettivo ultimo, forse distopico, dei processi di guarigione dopo un evento estremo, difficilmente ci occupiamo di ciò che anima i corpi e le strutture. Bisogna allora calarsi nel contatto diretto con le persone del posto per comprendere l’orizzonte più ambizioso a cui tendere: accompagnare la ricomposizione del tessuto sociale e delle memorie collettive; favorire l’accessibilità degli spazi pubblici che ridiventano luoghi di relazione; sostenere le capacità resilienti delle persone a tornare a mettere radici dentro la propria città.

È questo il senso dell’iniziativa del 5 marzo 2019, che ha visto la realizzazione dell’installazione “30 alberi per ritornare”, davanti al Palazzo dell’Emiciclo, sede del Consiglio Regionale d’Abruzzo. Il progetto è stato promosso dall’associazione danese Emergency Architecture and Human Rights EAHR, assieme all’università IUAV di Venezia e alle realtà aquilane di VIVIAMOLAq e lo studio Proteo Associati, in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria dell’Università de L’Aquila, l’Accademia di Belle Arti Abaq e il Liceo Artistico ‘Fulvio Muzi’.

Alberi, a simboleggiare le radici storiche, culturali e paesaggistiche della città, ‘piantati’ sul selciato della piazza e sedie recuperate hanno fatto da sfondo narrativo alla necessità di uscire dalla logica post-emergenziale e ritornare a una normalità fatta di radicamento sociale e condivisione collettiva. Le persone sono state invitate a sostare e partecipare indicando su una mappa i punti della città che ritenevano critici, accompagnati da oltre trenta architetti provenienti da diverse parti del mondo.

I momenti di incontro non sono mai unidirezionali e per gli architetti è stata l’occasione di interrogarsi sul proprio ruolo etico e sociale, quando sono chiamati a interpretare le richieste di un territorio (urbano o meno) e a farsi mediatori tecnico-culturali nei processi di strutturazione del suo tessuto fisico e insieme sociale. Un’esperienza che obbliga a ri-pensarsi come architetti di comunità, calandosi nelle conflittualità, avendo cura di connettere le proprie competenze con i bisogni e la sapienza delle persone del luogo.

In un centro Italia sconvolto dai terremoti di questi anni, le associazioni che lavorano con le comunità locali hanno inventato una parola bellissima: ‘restanza’. Ecco, la sfida per tutti – dai singoli alle organizzazioni, dai tecnici alle istituzioni – è questa: la capacità di promuovere e sostenere ‘restanza’.